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    Competenze, governance partecipata e Regioni sempre più centrali per gli ecosistemi dell’innovazione

    Denise Di Dio, esperta del Foro lombardo: “Il Social Tech è il settore emergente su cui investire”

    di Redazione Open Innovation | 12/06/2018

Il sistema italiano dell’innovazione? Sconta una frammentarietà di attori e risorse. Un limite a cui si può tuttavia ovviare, se le regioni d’Europa guideranno gli ecosistemi dell’innovazione investendo in governance partecipata, competenze e raccordo con i bisogni sociali. Questa l’opinione di Denise Di Dio, uno dei dieci membri selezionati per il Foro regionale lombardo della Ricerca e dell’Innovazione. Ricercatrice post-doc e Managing Director del gruppo di ricerca Tiresia (Technology and Innovation Research on Social Impact, centro di ricerca su Impatto Sociale e Innovazione Inclusiva) presso il Politecnico di Milano, School of Management, fa ricerca sulle politiche di innovazione inclusiva e sui temi della governance e dei partenariati pubblico-privato per l’innovazione. Nel 2014 ha iniziato a lavorare per il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (MIUR), partecipando come esperta al G7 Scienza 2017. In precedenza aveva guidato la nascita della policy a sostegno delle startup della Camera di commercio di Milano e l’avvio dell’incubatore Speed Mi Up con l’Università Bocconi e il Comune di Milano.

 

Qual è stato il percorso professionale che l’ha portata all’innovazione inclusiva?

“Fin dall’inizio ho lavorato alle politiche per lo sviluppo economico, in particolare a livello locale, occupandomi inizialmente di internazionalizzazione. In quegli anni si stavano muovendo molte cose a Milano, alcune delle quali hanno portato i loro frutti più recentemente (Expo, università sempre più competitive nei ranking internazionali, un incubatore universitario terzo al mondo, Human Technopole e tutto il sito ora rinominato MIND), ma a un certo punto ci trovammo di fronte un mondo completamente diverso. Determinato da un lato dalla bolla immobiliare statunitense, che iniziava a scatenare la crisi finanziaria che seguì per vari anni, dall’altro dall’ingresso sul mercato del primo Iphone, che di fatto segnò l’inizio dell’era dell’iperconnessione digitale e di quella Società 5.0 di cui ci ha parlato il governo giapponese al G7 dello scorso anno. Era il 2007, e in quell’anno di trasformazioni così radicali decisi di approfondire le politiche per l’innovazione, in particolare quelle innovazioni che hanno effetti positivi sull’ambiente, le eco-innovazioni. Così presi un Dottorato di ricerca in Istituzioni e Politiche all’Università di Cattolica, dove mi ero laureata in Scienze Politiche nel 2002, e un Master in Politiche Pubbliche all’University College of London.

Nel 2014 mi sono trasferita a Roma per collaborare con il MIUR. Oggi con il gruppo di ricerca Tiresia continuo a lavorare su innovazione e ricerca, che portiamo avanti collaborando con istituzioni sia a livello locale sia nazionale, e che si stanno gradualmente contaminando con i concetti e le pratiche sviluppate nell’ambito delle politiche per l’innovazione sociale e della finanza di impatto sociale, aprendo a una generazione di politiche per l’innovazione inclusiva”.

 

Qual è stato poi il suo ruolo come consulente del Miur?

“Ho contribuito in particolare alla definizione del Programma Nazionale della Ricerca 2015-2020 e ho curato la Strategia di Specializzazione. È stata un’occasione unica per lavorare in modo sistemico a una strategia di innovazione e ricerca, cercando di riallacciare quelle fratture di governance che indeboliscono la politica nazionale per l’innovazione. Per esempio abbiamo cercato di aumentare la coerenza di strategie europee, nazionali e regionali, e di riavvicinare attori pubblici e attori privati, anche attraverso un primo riferimento al tema della Responsible Research and Innovation (RRI), che credo sia comparso per la prima volta nel nostro PNR. Un esempio importante di questo riavvicinamento nel PNR è stato il ruolo fondamentale attribuito ai cluster tecnologici nazionali: non solo favorivano la collaborazione tra i diversi soggetti della ricerca, ma attraverso processi partecipativi e di governance interna producevano conoscenza utile a individuare le traiettorie di sviluppo tecnologico sulle quali poi MIUR e altri ministeri come il MISE potevano andare a investire. Abbiamo insomma puntato su un meccanismo diverso, partecipato, per decidere le linee programmatiche per la ricerca applicata”.

Cosa intende per fratture di governance nell’innovazione?

“Alle politiche per l’innovazione partecipano numerosi attori. In teoria, questo è un fattore positivo, perché abbiamo punti di vista diversi che contribuiscono all’obiettivo dell’aumento dell’impatto della ricerca. In particolare è fondamentale che ci sia un livello regionale forte, che rappresenta la dimensione migliore per avvicinare R&I ai bisogni dei cittadini e renderla coerente con le vocazioni industriali. Il rischio però è che, da un lato, ogni attore avvii politiche con poche risorse se commisurate a quelle di altri Paesi; dall’altro lato, senza una regia comune si può produrre un eccesso di risorse per alcuni settori o fasi dell’innovazione, che magari fanno anche fatica ad assorbirle, lasciando scoperti fenomeni che o non vengono intercettati, o vengono considerati troppo rischiosi per essere oggetto di investimenti. In definitiva, non si crea la massa critica necessaria per avere un impatto significativo degli investimenti, e rischiamo di sprecare risorse economiche già scarse. Obiettivo del PNR era allora quello di cercare di mettere ordine in questa frammentarietà di attori e risorse, senza limitare la loro autonomia ma mettendoli a sistema intorno a obiettivi comuni con metodi comuni, e rafforzando l’allineamento anche con la Commissione europea. Oggi per quantità di risorse economiche e influenza, di fatto è il livello europeo a indirizzare molte delle politiche per l’innovazione e ricerca che poi si realizzano nel nostro Paese”.

Come ha visto cambiare le strategie pubbliche italiane sull’innovazione?

“Ci sono da segnalare diversi mutamenti, soprattutto se guardiamo alla dimensione locale. Un passaggio particolarmente evidente credo sia quello che ci sta portando dal tentativo di “governo” top-down dell’innovazione, alla sua “governance” partecipata: Stato, Regioni, Comuni, si stanno gradualmente aprendo alla co-progettazione delle politiche, costruendo un piano intermedio con gli stakeholder e svolgendo un ruolo di coordinamento e indirizzo.

Regione Lombardia ad esempio si è dotata di una legge molto interessante, la 29 del 2016, che a livello di politiche pubbliche per l’innovazione rappresenta un passo in avanti, con un merito in particolare: come il Foro regionale per l’innovazione e i vari strumenti definiti da Regione Lombardia negli ultimi anni va nella direzione di stabilire una relazione diversa con gli stakeholder dell’innovazione e della ricerca e un rapporto di fiducia ancora maggiore con loro. E questo è fondamentale: oggi sappiamo che rendere più credibili le istituzioni che fanno politiche per l’innovazione ha un impatto diretto e forte sugli output dell’innovazione stessa. Nel corso del mio dottorato di ricerca ho indagato quali erano gli strumenti più adatti a stimolare le eco-innovazioni, oggetto del mio studio: in fase di analisi, l’attenzione si è spostata dallo strumento – ad esempio, se fosse più produttivo un bando, piuttosto che le agevolazioni fiscali – ad alcune caratteristiche delle istituzioni che proponevano le politiche di innovazione. Era emerso che la credibilità dell’istituzione – se proponeva politiche continuative, ad esempio, e non solo misure spot – rendeva le politiche come più funzionali. L’auspicio per il Foro è dunque che possa avere un impatto migliorativo dell’efficacia delle politiche per gli investimenti regionali in ricerca e innovazione”.

Lei ha indirizzato bandi per milioni di euro per start up nel settore digitale: come valuta la crescita di queste realtà innovative negli ultimi anni?

“Il ruolo del digitale è cresciuto ulteriormente, e le startup attive in questo settore continuano a essere quelle che ricevono la parte più importante di investimenti (nel 2017 raggiunge quota 39%, era il 37% nel 2016, fonte Aifi). Nel complesso però, sono cambiate molte cose, e oggi siamo, giustamente, in una fase completamente diversa che ha bisogno anche di politiche pubbliche diverse. In questi anni infatti ci si è concentrati sulla necessità di fertilizzare il mercato, con piccoli investimenti molto distribuiti. Quello che è mancato è lo scaleup degli ecosistemi e delle imprese avviate e più promettenti. Questo è dipeso da vari fattori, tra cui la debolezza a volte di alcune competenze imprenditoriali, la mancanza di un numero adeguato di imprese di medie e grandi dimensioni pronte a collaborare con queste startup adottando modelli di open innovation, ma anche la scarsità nel nostro paese di un certo tipo di finanza. Sono problemi che condividiamo con la maggior parte dei paesi europei, e anche in termini complessivi l’Unione Europea rispetto a Stati Uniti e Cina è riuscita a far emergere molti meno “unicorni” (start-up del valore di oltre $ 1 miliardo): nel 2017 se ne contano 26, rispetto a 109 negli USA e 59 in Cina. Una delle motivazioni è stata individuata nella mancanza di finanza appropriata, e anche per questo la Commissione europea e il Fondo europeo per gli investimenti hanno lanciato un programma paneuropeo di fondi di fondi di capitali di rischio (VentureEU) per stimolare gli investimenti nelle start-up e scale-up innovative in tutta Europa”.

Come si può modificare questo quadro?

“Lavorare agli strumenti finanziari non basta, un ruolo che dovranno adottare le regioni europee è quello di guida e rafforzamento degli ecosistemi per l’innovazione, facendo crescere le competenze degli attori e la domanda di innovazione. In Lombardia da questo punto di vista sono già stati fatti passaggi importanti, ma per salire di livello servono investimenti ancora più forti in capacity building e per l’adozione delle innovazioni, cercando al contempo di sviluppare quelle industrie emergenti sulle quali i privati faticano a investire dato l’alto rischio. Tra queste industrie emergenti forse possiamo inserire anche il “Social Tech”, quella parte di imprenditoria sociale che soprattutto attraverso l’adozione di tecnologie digitali sta crescendo in tutta Europa. Quello dell’imprenditorialità sociale è un settore emergente oltre che per la capacità di tradurre R&I in impatto sociale, soprattutto perché risponde a bisogni forti, di welfare ma anche di tipo medico. In questo ambito la domanda pubblica gioca un ruolo fondamentale, e c’è spazio per fare molto costruendo sulle sperimentazioni di procurement pubblico innovativo fatte in questi anni, tra cui gli Appalti pubblici pre-commerciali a cui anche Regione Lombardia ha fatto ricorso.

È centrale però una corretta rilevazione e definizione dei bisogni, anche grazie all’analisi di grandi banche dati, e il superamento della logica a silos organizzativi dell’ente pubblico: dipartimenti con diverse deleghe devono lavorare insieme all’innovazione, individuando le grandi sfide che devono guidare il nostro sistema della R&I. È l’approccio mission-oriented alla ricerca e l’innovazione, e sarà centrale nel prossimo programma quadro europeo.”

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